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Far pagare ciò che è gratis: la strategia delle app di nuova generazione?

Gaetano Abatemarco Lug 05, 2014

Il mondo del mobile è saturo. Tutti i sistemi operativi fanno tutto, tutte le app fanno tutto. E ci vuole una bella idea per scuotere questo ecosistema che pullula di materiale spesso in esubero. Ma… come?

Semplice, magari “fregando” i poveri utenti, offrendo loro qualcosa in cambio di un po’ di denaro. Qualcosa che, in realtà, dovrebbe (anzi, è) gratuito. Pagare per la comodità, in pratica. Questo modus operandi esiste già da tempo: volete che un pacco venga recapitato fino a casa? Bisogna pagare le spese di spedizione. Volete prenotare in anticipo un posto in un villaggio vacanze? Dovrete versare una piccola caparra. Ed è giustissimo.

Ma cosa succederebbe se una cosa del genere venisse distorta e ridisegnata per far guadagnare la startup di turno e rischia seriamente di diventare una moda? Vi faccio due esempi di tre pericolosissime app – o meglio, una webapp e due app – che al momento funzionano in quel di San Francisco, le cui startup alle spalle guadagnano proprio in questo modo.

La prima si chiama ReservationHop e funziona con un criterio abbastanza semplice: il team alle spalle dell’app prenota posti a sedere sotto nomi fasulli nei ristoranti più in voga di San Francisco (le prenotazioni sono gratuite) e rivende tali prenotazioni sul proprio sito ad un prezzo che varia dai 5 ai 10 dollari. E a guardare il sito web si direbbe che… c’è davvero chi le compra!

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Risultato:

  1. chi non vuole rivolgersi a ReservationHop avrà difficoltà a prenotare in quanto i posti risulteranno già prenotati (proprio da ReservationHop);
  2. usare l’app di ReservationHop per ottenere una prenotazione costringerebbe gli utenti a pagare 5 o 10 dollari per qualcosa di altrimenti gratuito;
  3. se nessuno prenotasse tramite ReservationHop, il ristorante sarebbe danneggiato poiché si ritroverebbe con dei posti prenotati da personaggi che… non esistono.

Alla fine gli unici a guadagnare sono proprio quelli di ReservationHop, e quella che potrebbe sembrare una comodità è in realtà una fregatura bella e buona, sia per gli utenti che per gli esercenti.

Un’altra app del genere è Monkey Parking: questa permette invece di prenotare i parcheggi (gratuiti) nelle strade pubbliche con l’intento di “diminuire il traffico”. Si, certo. Volete sapere come funziona?

L’utente A, parcheggiato nel suo bel posticino, mette in vendita su Monkey Parking il suo spazio, che sarà assegnato a chi offrirà di più sempre tramite l’app. E, ovviamente, una percentuale sul guadagno va direttamente a Monkey Parking. Alla faccia di chi non ha uno smartphone o di chi non vuole usarlo mentre guida.

Sweetch funziona quasi alla stessa maniera: si pagano 5 dollari tramite l’app quando si “prende” il posto (altrimenti gratuito) da un altro utente e ne vengono restituiti 4 quando si lascia il posto. Con un guadagno netto di un dollaro a posto. Per Sweetch, ovviamente.

In pratica, queste app – o meglio, le startup alle loro spalle – mettono in vendita l’usufrutto di un bene pubblico altrimenti gratuito. Certo, ognuno è libero di far soldi nella maniera che più ritiene opportuna e nei limiti di quella che è la legalità.

Vista però la natura praticamente piena dei vari ecosistemi mobile, esiste ed è concreto il rischio che app simili prendano seriamente piede. Lasciare che un business model del genere prenda piede nel mondo sarebbe estremamente pericoloso, soprattutto per gli utenti finali. 

Speriamo di non prendere esempio e che, se proprio app mobile per tutto deve essere, che questa app mobile sia almeno corretta nei nostri confronti.

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